Sono stata una bambina piuttosto quieta e riservata. Una parte di me è rimasta tale.

Non ho mai disdegnato la solitudine, perché mi concede ampi spazi per coltivare il mio mondo. Trovo il silenzio una condizione necessaria, al pari della noia: il primo elimina il superfluo e concilia una visione lucida, la seconda mi stimola a chiedere di più da quello che faccio.

Dell’arte mi ha sempre affascinato ciò che il pubblico non può vedere: il pre e il post performance.

L’atto performativo in sé è “solo” la sublimazione di quel prima e quel dopo. È quella parentesi creata affinché il pubblico possa vedere, in un certo senso “in sicurezza”, il risultato di un viaggio spesso piuttosto turbolento, pieno di riflessioni, prove, dubbi e decisioni, talvolta brutali ma necessarie per ottenere un prodotto finito valido che, forse, completamente “finito” non lo sarà mai.

Creare è un bisogno, un mezzo, una responsabilità.

Il corpo è come uno spazio vuoto: più ampio di ciò che sembra, perché contiene il detto e il non detto, la memoria e un’ulteriore area destinata a ciò che arriverà. Il movimento non è altro che l’inchiostro con cui raccontare tutto ciò.

Amo la ricerca, la contaminazione delle arti, la disciplina come equilibrio necessario al caos, il buio e la luce nelle loro accezioni più ampie, le emozioni pure, l’assenza di filtri, il selvatico.